Il canto dell’usignolo

TEATRO

Glauco Mauri e Roberto Sturno, accompagnati dalle musiche composte ed eseguite al pianoforte da Giovanni Zappalorto, dalla violinista Marzia Ricciardi e da Marzio Audino alle percussioni, danno voce e volto a testi e poesie di Shakespeare, in “Il canto dell’usignolo”, andato in onda sabato 13 febbraio su Rai5.
Si tratta di un viaggio, diretto dallo stesso Glauco Mauri, tra le pagine più belle dei capolavori del Cigno dell’Avon, che vanno dall’amore dei Sonetti, sentimento universale al di là dei generi, a brani tratti dall’ Enrico V, da Come vi piace a Macbeth, da Riccardo II a Timone d’Atene, da Giulio Cesare a Re Lear, fino all’arte magica di Prospero de La tempesta.
Lo spettacolo è stato registrato al Teatro di Tor Bella Monaca di Roma nel dicembre 2020 con la regia televisiva di Andrea Menghini. Il progetto editoriale è di Felice Cappa, produttore esecutivo Serena Semprini, a cura di Giulia Morelli.
Il titolo fa riferimento alla breve favola di Gotthold Ephraim Lessing: “Un pastore, in una triste sera di primavera dice a un usignolo:
«Caro usignolo, perché non canti più?».
«Ahimè – rispose l’usignolo – ma non senti come gracidano forte le rane? Fanno tanto tanto chiasso e io ho perso la voglia di cantare. Ma tu le senti?»
«Certo che le sento – rispose il pastore – ma è il tuo silenzio che mi condanna a sentirle».
Allo stesso modo, Mauri e Sturno decidono di “cantare”, per non condannarci a sentire il tanto gracidare della banalità e della volgarità.
Niente da dire sulla opportunità di questa più che opportuna operazione culturale che, in pieno periodo di pandemia, cerca di salvarci dal fragoroso ‘gracidar delle rane’ attorno a noi.
Solo che ormai noi siamo stanchi di questo andazzo in cui un drammaturgo come William Shakespeare, invece di rappresentarlo nell’originalità con cui lui ci ha lasciato i suoi drammi, viene scomposto, re-interpretato, elaborato in forme diverse, non tutte culturalmente accettabili, ma comunque lontane dalla sua originalità.
Sembra quasi che di questi tempi di sonnolenza culturale di William Shakespeare più che i drammi che ha scritto, si scelga ciò che, elaborato, spesso stravolto, si ritiene opportuno presentare come sopportabile per un pubblico di oggi.
A noi viene in mente Mark Twain secondo cui un ‘classico’ è un’opera di cui tutti parlano senza averlo letto; tradotto nel teatro, un’opera che tutti rappresentano ma non mai nell’originale.
Prendiamo, per esempio, l’orazione di Antonio ai funerali di Giulio Cesare; altro è il brano in se stesso, per quanto magistralmente interpretato da Roberto Sturno, altro è il brano stesso inserito nel dramma completo e originale; il primo resta una esercitazione drammatica, il secondo il momento clou di un dramma di valore universale. Noi con tutto l’apprezzamento per Glauco Mauri e Roberto Sturno, propendiamo comunque per l’opera originale… anche in tempi di corona virus.

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